Se c’è una cosa che ha sempre reso fieri noi infermieri, è la consapevolezza di quanta parte del loro tempo,i pazienti passano con noi ... e noi con loro. Ed è vero, con noi più che con qualsiasi altro operatore sanitario. Ma di questo tempo e per tanto tempo, anche noi infermieri ne abbiamo fatto un uso prevalentemente “tecnico” convinti che soprattutto il saper fare corrispondesse al fare bene, lontani quindi “dall’essere con” e inconsapevoli “dello stare insieme a”. Naturale che il progresso della tecnica e della specializzazione comportino la doverosa necessità di avvalersene. Ma rifugiarsi nel tecnicismo ha fatto si che una volta esaurito l’impegno concessoci dalle nostre competenze, ci si accorgesse di un “Tutto” che ancora rimaneva, con molto da dire e soprattutto con molto da ricevere.
Ci si dimentica, che l’essere umano è un insieme inscindibile e originale che già di per sè con il passare del tempo è impegnato continuamente a ridefinirsi e non trae certo vantaggio da comportamenti che non tengano conto di questa sua fatica.
Solo se riusciamo a capire il valore di questo messaggio, se riusciamo a “rinunciare” alla certezza di un sapere tecnicistico per lasciare spazio ad una maggiore attenzione alla particolarità di ogni relazione, allora si che noi infermieri potremmo sentirci fieri ed orgogliosi di passare così tanto tempo con i pazienti.
Perchè è su quel creare dei legami che recuperiamo senso.
Siamo nel XXI capitolo del “Piccolo Principe” in cui leggiamo di come con pazienza e poche parole ci si accosta, ci si conosce e si prepara spazio per una relazione. Con un amico? Con un paziente? Si e lo posso fare se penso che colui che ho di fronte non è l’utente, il cliente, ma il paziente, la persona che soffre nella sua globalità. E qui ritorna tutto ciò che un tempo a scuola chiamavamo “Nursing” dove lo sguardo veniva educato ad incontrare non la malattia ma il malato, a leggere non una patologia ma una biografia.
Perchè l’infermiere non guarisce nessuno ma con la propria competenza tecnica di cui è responsabile cerca di mettere il paziente nella condizione di attivare e mobilizzare le risorse di cui dispone per superare il momento di difficoltà in cui si trova, così da permettergli di convivere al meglio con il proprio limite e le proprie possibilità residue nel “qui ed ora”. Il suo compito pertanto non si esaurisce di fronte ad una prognosi infausta. Partendo dal presupposto che non esiste una salute “oggettiva” l’operatore dovrà rinunciare all’idea di conoscere il modo giusto o la risposta giusta per accogliere prima di tutto all’ interno di se stesso uno spazio di incertezza necessario per accettare l’altro così come è.
Questo per dire che nella relazione assistenziale siamo impegnati continuamente attraverso il dialogo, il confronto e la comunicazione, a porci il seguente interrogativo: “cosa sta succedendo al paziente?” e “a me?”. Già duemila anni fa qualcuno disse: «Ama il prossimo tuo come te stesso» ... Ma continua a non avere senso finchè non si capisce che la parola chiave non è “prossimo” ne’ “amore”, ma quel semplice “come” che tante volte si ignora. Perchè fino a quando non saremo capaci di amare noi stessi saremo anche in difficoltà ad amare gli altri. In realtà ciascuno dovendo amare se stesso, per poter amare anche gli altri, deve innanzitutto ritrovare il proprio equilibrio sfruttando le proprie risorse che sono originali ed irrinunciabili. La capacità di stabilire una relazione non si acquisisce una volta per sempre ma è un obiettivo presente per tutta la vita che si rinnova nel tempo. È evidente quindi che nella relazione con il paziente l’informazione e la sincerità dell’ operatore sanitario debba essere modulata in rapporto alle capacità psichiche del soggetto di cura evitando di deprimerne le difese, attivando la sua collaborazione per affrontare il momento difficile che sta attraversando.
Ci lasceremo guidare e condurre nell’ascolto proprio dove spesso le parole non arrivano o arrivano dopo e ciò che diventa sostanza è il nostro sguardo, il nostro corpo, la nostra postura, la nostra capacità di stare, semplicemente il nostro esserci.
Certo è molto più faticoso e impegnativo che non applicare uno schema o un protocollo, trincerandosi dietro un’assistenza terapeutica tecnica che di fatto rischia di abbandonare il paziente e chi gli sta vicino in una solitudine sconfortante.
Prestando attenzione all’ altro non come semplice oggetto di cura ma come soggetto di un'azione terapeutica, ci si accorgerebbe che la relazione non è qualcosa in più ma è l’ aspetto centrale di qualsiasi cura.
Se per curare un organo malato si possono succedere azioni precise, lo stesso non si può dire per stabilire una relazione d’ aiuto. Non ci sono risposte che vanno bene per tutti, non c’è un paziente uguale ad un altro, non c’è nemmeno un operatore uguale ad un altro e non c’è neppure un tempo giusto per tutti. L’ unica possibilità, è imparare ad “usare” noi stessi come strumenti ... anche d’amore. Con semplicità.