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Il tumore del polmone: stadio alla diagnosi e trattamento della fase iniziale

Nel numero di maggio avete letto che il tumore del polmone in Italia è la seconda neoplasia più frequente negli uomini (15%) e la terza nelle donne (6%), con una stima per l’anno 2022 in Italia di circa 43.900 nuove diagnosi (Rif. I numeri del cancro in Italia 2022. Intermedia Editore).
D’ora in poi intenderemo per tumore del polmone solo il tumore con istologia non a piccole cellule (in inglese non-small cell lung cancer = NSCLC); esiste poi anche il microcitoma polmonare (SCLC) che rappresenta una minoranza dei casi e non è oggetto di questa trattazione. Ad oggi, una percentuale limitata dei casi di NSCLC viene diagnosticata in stadio iniziale o in stadio localmente avanzato; nella maggior parte dei casi la diagnosi avviene quando la malattia è già metastatica.
Sulla rivista JAMA nel 2021 sono stati pubblicati i dati di incidenza alla diagnosi suddivisi per stadio, riferiti alla popolazione degli USA (Rif JAMA Oncol 2021, Ganti). Dai questi dati emerge che una quota maggiore del 40% sono i casi diagnosticati già metastatici (stadio IV); circa il 20% sono i casi in stadio III (gruppo eterogeneo di casi, alcuni operabili, altri no); la restante quota sono i tumori in fase iniziale, quei casi teoricamente candidabili a un trattamento curativo con l’intento di portare il paziente alla guarigione.
Lo stadio alla diagnosi condiziona inevitabilmente la prognosi del paziente e quindi la sua sopravvivenza. Nelle pubblicazioni scientifiche si parla di “sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi”, cioè in base allo stadio alla diagnosi si stima su 100 pazienti quanti saranno vivi dopo 5 anni. Questa percentuale ovviamente si riduce passando dallo stadio I allo stadio II e così via fino allo stadio IV.
Per questo motivo la tempestività diagnostica è fondamentale. Nel mio lavoro quotidiano mi capita di vedere pazienti operati per tumori piccoli, e quindi potenzialmente guariti, che sono arrivati alla diagnosi spesso in modo casuale, facendo una lastra dei polmoni per altre motivazioni (episodio di febbre, caduta accidentale con trauma del torace, prericovero per intervento di altro genere).
Quando invece i pazienti arrivano a fare accertamenti perché già sintomatici, spesso il tumore è già in IV stadio, e ha dato segno di sè per invasione dei tessuti adiacenti (coste, pleura) oppure a distanza (dolore da metastasi ossea, sintomi neurologici per metastasi cerebrale).
Ad oggi il ruolo dei trattamenti medici è sempre più importante anche nella fase iniziale di malattia, e le analisi molecolari, mirate proprio a identificare tali alterazioni sul tessuto tumorale, rappresentano una parte fondamentale della diagnosi, che precede necessariamente la scelta del trattamento migliore per ciascun paziente.
Nei tumori in fase iniziale, potenzialmente resecabili, è importante il ruolo della chemioterapia sia in fase neoadiuvante che adiuvante.
Un tumore non metastatico può essere sottoposto a un trattamento chemioterapico con finalità citoriduttiva, per ridurre cioè le dimensioni della massa tumorale e dei linfonodi patologici locoregionali, nell’ottica poi di un approccio chirurgico con scopo radicale.
In altri casi – previa valutazione della riserva respiratoria – il paziente può venire candidato in prima istanza a una chirurgia curativa. In questo caso sarà poi la valutazione dell’esame istologico definitivo di quanto asportato chirurgicamente che definirà il rischio di recidiva del paziente e quindi l’indicazione o meno a un trattamento chemioterapico post-operatorio. Questi pazienti sono a rischio sia di una recidiva locale a livello toracico (30% circa) sia a distanza nei 2/3 dei casi. In modo generico possiamo dire che sono gli stadi II e III che vengono valutati per un trattamento chemioterapico postoperatorio in genere con una doppietta a base di platino (in genere cisplatino o carboplatino associato a vinorelbina). Vengono solitamente somministrati 4 cicli di terapia che in genere vengono avviati entro 2 mesi dall’intervento.
E le novità in cosa consistono? Il ruolo della biologia molecolare e l’analisi di fattori prognostici o predittivi di risposta a un trattamento, se qualche anno fa riguardavano solo la malattia avanzata, ora vengono considerati anche in fase precoce.
L’analisi del gene EGFR e il riscontro di una mutazione definita “attivante” (non tutte le mutazioni sono uguali!), candida il paziente a un trattamento adiuvante per 3 anni con un farmaco orale anti-EGFR, con una riduzione del rischio di recidiva più significativa negli stadi II e III.
Un’altra novità è legata all’utilizzo anche dell’immunoterapia in fase adiuvante. Qui è necessaria la determinazione dell’espressione di PDL1 che deve essere maggiore del 50% per poter candidare il paziente a un trattamento sequenziale con chemioterapia e immunoterapia per una durata complessiva di circa 1 anno. Le somministrazioni di immunoterapia sono endovenose.
Il prolungamento della durata del trattamento adiuvante e il fatto che né i farmaci antiEGFR, né l’immunoterapia- pur se in genere ben tollerati – sono scevri da effetti collaterali, richiedono un’attenta valutazione del paziente, comprensiva delle copatologie, della funzionalità d’organo e per i pazienti anziani ultra 65enni anche di una valutazione geriatrica multidimensionale prima dell’avvio del trattamento.

Karen Borgonovo
Oncologa
Oncologia Medica ASST - Bg Ovest - Treviglio

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